Salvatore Settis ha scritto ancora una volta contro
gli architetti e per sponsorizzare il suo “giuramento di Vitruvio”. Merita
una risposta, ma indiretta.
Caro Massarenti,
ti scrivo dopo qualche anno per
commentare una seconda nota, pubblicata sul recente Domenicale del
Sole24ore (29.01.17), contro i maledetti architetti che “devastano il corpo
sociale riempiendo di orrori città e campagne”. Sembra di capire che “la
frammentazione territoriale , la violenta e veloce modificazione dei paesaggi,
il dilagare di periferie sprawl, il moltiplicarsi di rovine , discariche,
non luoghi residuali” siano tutte disgrazie da attribuire anche all’opera degli
architetti.
Contro queste disgrazie, il
Domenicale ripropone la soluzione di tre anni fa, cioè un “Giuramento di
Vitruvio” (alla maniera dei medici), formula invero molto “carina” sulla quale
si può costruire (pare) anche un qualche successo accademico.
Desidero dunque esporti alcune
considerazioni, premettendo che Vitruvio è sempre stato per me (ed è
tuttora) un riferimento imprescindibile che ha informato tanti anni
di docenza.
Vitruvio, come si ricorda sul
Domenicale, è vissuto nel primo secolo avanti Cristo; la sua lezione ha
avuto molti seguaci, almeno sino al ‘500. In questo lungo periodo la società ha
subito indubbiamente cambiamenti, ma non tali da essere paragonabili a quelli
prodotti dalla Rivoluzione francese, dall’industrializzazione, dalla
globalizzazione, dal pensiero post moderno, ecc. Oggi la proposta di un
giuramento non può prescindere da questi eventi, se non vuol essere inutile e
sommamente ridicola.
Immagino che con il termine
architetti si volesse indicare sul Domenicale il variopinto mondo di
attori che intervengono sul territorio italiano con competenze non sempre ben
definite: architetti con diversi livelli di laurea e specializzazioni,
ingegneri di vario tipo, geometri, periti edili e quant’altro. Anche la molteplicità
di questa congerie di attori diversamente formati non può essere
trascurata per una seria analisi che, ad esempio, dia qualche numero
statistico. Si vedrebbe, allora che uno studio commissionato dal CNA nel
recente passato stima in un 3-4% del totale la massa del costruito addebitabile
(!) agli architetti.
Torniamo ora alla congerie di
cui poco sopra. In Francia il progetto di architettura è campo d’azione degli
architetti in virtù di una legge che ne stabilisce le competenze e, insieme, i
poteri e le responsabilità. Ho partecipato con vari ruoli alla scrittura di
molteplici testi legislativi analoghi, con risultati nulli: in Italia il tema
non interessa, anche se proprio ultimamente è stato riportato all’attenzione da
un gruppo nutrito di colleghi. La legge dovrebbe innanzitutto determinare la
natura delle prestazioni dell’architetto. Orbene devo segnalare che nel nostro
sistema l’opera dell’architetto svolta per la pubblica amministrazione
non è considerata opera d’ingegno bensì (udite udite !) prestazione di
servizio, alla pari delle pulizie, delle guardianie, del catering, ecc.
Penso che, per la sua stessa
natura, il Domenicale potrebbe meritoriamente interessarsi con impegno al
successo di una “legge per l’architettura” e quindi ti sollecito in questa
direzione. Non che io creda sui poteri salvifici di una simile legge, ma sono
certo che se la voce e le opere degli architetti arrivassero al corpo della
società italiana attraverso una informazione qualificata, si otterrebbe molto
di più che con un giuramento etico il quale, di fronte alla cecità,
all’ignoranza, agli interessi materiali dei decisori politici, alla corruzione
sistemica diventa un flatus vocis.
Ancora: sono anni che gli
Ordini professionali e l’Istituto Nazionale di Architettura chiedono che
nell’assegnazione di incarichi professionali per opere pubbliche si torni alla
pratica del concorso: non parliamo tutti di voler premiare il merito? Orbene,
in Italia questa procedura sembra un orpello inutile o un paralizzante
lacciolo; viceversa nel tempo qualche risultato lo darebbe, specie se i
burocrati venissero responsabilizzati al proposito. I professionisti si
sentirebbero più protetti ed impegnati a comportamenti etici. Pure su questo
argomento il Domenicale potrebbe far molto.
Ma qual è la forza degli
architetti nel contesto della società? Il sistema ordinistico, relitto delle
antiche corporazioni, è inadeguato ad una tutela della professione che
oltrepassi la soglia di una gestione burocratica o notarile. Qualche
miglioramento si potrà avere se, con la tutela del CNA, nasceranno anche in
Italia delle associazioni private capaci di proporsi come “soggetto sociale”
nel senso dato da Habermas a questa locuzione. Ma parlo di tempi lunghi.
Infine, segnalo un aspetto che
mi sta particolarmente a cuore. C’è una distanza molto grande tra
l’architettura moderna e contemporanea e il “sentire comune” della popolazione
italiana in una materia così complessa. Molti di noi sono interessati a questo
esiziale fenomeno; personalmente ritengo che una parte dei problemi connessi
riguardino la mancanza di qualche vettore informativo (non professionale!)
che sappia giungere al corpo grosso del Paese o almeno a qualche sua
parte. Se l’architettura contemporanea non fosse ignorata com’è, c’è da credere
che molte strade contorte che il progetto oggi deve faticosamente percorrere,
perdendo ad ogni curva una parte del suo iniziale valore, si raddrizzerebbero
almeno un poco. Anche qui penso alle possibilità di un’alleanza della categoria
con il tuo giornale, del quale conosco bene le potenzialità.
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