(perché dov’era com’era)
ALCUNE
PREMESSE
A proposito di terremoti in
Italia un aspetto risalta chiaramente:
l’amministrazione non ha (non può avere?) memoria di se: non esiste
sisma le cui procedure d’intervento siano state riutilizzate, in tutto o in
parte, negli eventi successivi. Il perché risiede nei principi di autonomia
regionale e ancor più nello scontro per la titolarità dei finanziamenti.
Dunque, sui criteri d’intervento neanche un solo principio guida si è
consolidato: si oscilla tra il rifare tutto “com’era dov’era” ed il
trasferimento totale degli abitati, sino alla follia delle new town.
Un censimento di qualche utilità
delle aree a rischio è un’utopia per la rozzezza dei parametri sinora
utilizzati e d’altra parte, come s’è visto anche in questo caso, il controllo
delle opere di ricostruzione eseguite dopo un evento sismico viene sempre rinviato,
sino al ripetersi dell’evento nell’area: non si hanno infatti notizie di
vistose condanne per inadempienze o incompetenze passate.
Una difficoltà procedurale per
la ricostruzione consiste nella frantumazione proprietaria che nei piccoli
paesi turistici peggiora a causa delle tante seconde case. Inoltre, gli uffici
tecnici comunali, quando esistono, non sono in grado di garantire che gli
interventi sulle proprietà private tengano conto della resistenza delle
strutture interessate agli eventuali adeguamenti (ha vinto lo slogan “padroni
in casa propria”): di fatto non si esercita alcun controllo delle successive
trasformazioni. Da qualche tempo si pensa di poter rimandare il controllo delle
attività private al “Fascicolo del fabbricato”. Si tratta di un’esperienza
tentata e fallita, non tanto per l’ostilità dei proprietari che lo considerano
una ulteriore tassa sulla casa, quanto per il fatto che al momento di definire
il quadro e firmare, nessun tipo di professionista si è dichiarato disposto ad
assumersi la responsabilità del giudizio tecnico finale.
Anche nel caso delle
ricostruzioni post sisma, è inutile lamentarsi della mancanza di una norma che
regoli le competenze tecniche tra l’elevato numero di figure professionali
implicate nell’edilizia: una legge come quella francese è stata proposta varie
volte (si conoscono almeno 5 stesure) e non ha mai ricevuto la necessaria
attenzione dei decisori politici.
Quando si parla di eventi
sismici e della loro gestione bisogna conoscere le dinamiche "reali"
che si innescano a valle dell’evento, bisogna averne vissuto qualcuno in prima
persona; Quello che riescono a fare i cittadini e le amministrazioni in fatto
di imbrogli amministrativi è assolutamente inenarrabile (vedi Irpinia). Quello
che riescono a fare le strutture associative dei tecnici, degli amministratori
condominiali, delle imprese, ecc. è inimmaginabile (vedi l'Aquila). Quello che
si attiva nel mondo "politico" delle piccole realtà amministrative è
del tutto imprevedibile (vedi Belice). Pochi sono gli eventi sismici italiani
che possono essere ricordati per qualche sviluppo esemplare e sono tutti
nell’Italia centro settentrionale.
Infine, per parlare di quanto ci
riguarda più da vicino, dalle prime scosse di Amatrice si è sviluppato sulla
stampa e sulla rete un interessante dibattito disciplinare sulle modalità della
ricostruzione e delle tecnologie da adottare e, soprattutto, sul diritto
dell’architettura di esprimersi con le forme del suo tempo: la posizione più
intransigente è quella che rifiuta qualunque ricostruzione basata sul principio
del “com’era dov’era”.
Tuttavia questa posizione perde
consistenza se si esaminano alcuni aspetti di sistema, cioè riferiti al
territorio da una parte e al “senso comune” delle popolazioni dall’altra.
LA FILOSOFIA DEL “DOV’ERA
COM’ERA
Osservazione preliminare: l’espressione
“dov’era com’era” sintetizza un indirizzo operativo che ha creato alcuni
equivoci perché sembra riferito al solo patrimonio edificato dei territori
terremotati: case, chiese, spazi e servizi pubblici; esso riguarderebbe esclusivamente
le scelte tecnologiche e figurative da utilizzare nella riedificazione edilizia.
Viceversa, (qui sta il centro del ragionamento che segue) questo indirizzo non
può essere discusso se non considerando che esso sintetizza il pensiero di una
collettività coesa che difende la sua identità come valore.
Se si esaminano i caratteri dei
siti del cratere nel quale si collocano le diverse collettività interessate al
sisma si può notare che ciascuna aveva con il suo sito un particolare rapporto
complesso basato:
-
sull’organizzazione fisica dello spazio
abitato, cioè sull’insieme delle memorie
materiali in termini di manufatti edilizi nonché di prodotti delle arti
pittoriche, scultoree, artigianali;
-
sui rapporti di parentela e di vicinato,
sul controllo sociale, sulle consuetudini cultuali, sugli assetti politici;
-
sulla gestione delle terre circostanti
in termini di prodotti agricoli e di allevamento di specie animali
destinate alla produzione di materie
prime da avviare all’industria di trasformazione locale;
-
su un’offerta turistica caratterizzata
dalla fruizione di depositi storici e culturali, di eccellenze gastronomiche,
di ricchezze ambientali e paesaggistiche, il tutto a costi contenuti per
l’ospitalità e l’alimentazione.
In altre parole, il “com’era
dov’era” riguarda l’intera vita delle popolazioni locali, sia in termini
identitari che lavorativi che reddituali, dal momento che l’insieme degli
aggregati costruiti (con le loro ricchezze storico-artistiche e cultuali),
delle produzioni agroalimentari locali, dei paesaggi, rappresenta quell’offerta
turistica dalla quale derivano per gran parte i redditi delle famiglie.
Insomma, il sistema dei piccoli
“presepi” collinari/montani costituisce una ricchezza che facilmente una
ricostruzione sbagliata per qualche aspetto potrebbe irrimediabilmente
pregiudicare: una ricchezza fragile.
Per esempio, se gli edificati perdessero quel
carattere antico che rappresenta una qualità consolidata nell’immaginario
collettivo (locale e internazionale) capace di attrarre turismo, è probabile
che quest’ultimo sparirebbe: la ricostruzione avrebbe prodotto un danno
irreparabile anziché un beneficio.
Il proposito sottinteso a questo
scritto è comunque quello di limitare il ragionamento ad un solo problema:
quale può essere una via ragionevole per la ricostruzione degli insediamenti
urbani?
SULLA RICOSTRUZIONE DEGLI
INSEDIAMENTI
Dunque la formula del “dov’era
com’era” per la ricostruzione dei tessuti storici dei nostri “presepi” va
esaminata sulla base di molteplici fattori.
1 – c’è un
“senso comune” molto forte delle popolazioni colpite che le spinge a voler
ricostruite non solo le loro abitazioni, ma anche gli ambienti circostanti, di
vicinato, nei quali esse sorgevano. E’ l’interpretazione inconsapevole e
popolare di quella regola che Lavedan ha
sintetizzato nella formula della “permanenza del piano”: ancor oggi essa rappresenta
l’elemento formale più caratterizzante dei piccoli insediamenti, come è stato
per L’Aquila;
2 – le piccole città, i paesi, i borghi, le frazioni,
ecc. nelle zone di più antico insediamento hanno raramente edifici d’abitazione
plurifamiliari e quando accade ciò è il prodotto di annessioni, sopraelevazioni
e superfetazioni che rendono le proprietà inestricabili, fonti di contenziosi
insanabili;
3 – la gran parte del costruito terremotato riguarda
case di abitazione private e l’esperienza dei terremoti precedenti dimostra che
ciascun proprietario intende occuparsi in prima persona della ricostruzione che
lo interessa. Ciò significa che le configurazioni architettoniche dipenderanno
per gran parte dalle scelte del proprietario e del progettista e, per quanto ci
interessa, dalla qualità professionale e culturale di quest’ultimo. (Nell’insieme
delle molteplici esperienze di ricostruzione fa eccezione a quanto appena detto
quella del Belice dove le abitazioni furono ricostruite per massima parte su
progetto e iniziativa dell’ente
pubblico; ma chiunque abbia visitato Gibellina, ad esempio, sa quale è il
livello di gradimento delle popolazioni e quanta la loro frustrazione);
4 – ripristinare l’abitabilità con garanzie di
sicurezza è poco fattibile con azioni di rinforzo, cerchiaggio, inchiavardatura,
ricucitura, ecc. dal momento che la parte più cospicua dei problemi risiede
nella qualità dei terreni e nei sistemi fondali. La totale demolizione di
quanto resta darebbe le necessarie garanzie;
5 – chi gestirà (comune, commissario, struttura di
missione, protezione civile?) la ricostruzione della quota privata dovrà tener
conto di questo intreccio di problemi e, soprattutto, dettare norme (poche,
possibilmente) d’indirizzo per proprietari e progettisti. Si sa bene che il
compito non è facile per la grande quantità di interessi e soggetti in gioco,
ma la riuscita e la velocità dell’opera di ricostruzione dipende almeno all’80%
da questi fattori;
6 – alcune “buone pratiche” progettuali che
accontentino le aspettative dei cittadini senza deprimere la qualità estetica e
la memoria storica dei luoghi possono essere proposte se i responsabili della
ricostruzione (tecnici e amministrativi) sono all’altezza del compito;
7 – del tutto diverso deve essere il ragionamento per
quanto riguarda tutti gli edifici e gli spazi pubblici. In questo caso le gare
di progettazione e costruzione sono il tramite per conferire qualità
architettonica alle ricostruzioni e fondamentale saranno la fattura dei bandi e
la scelta delle giurie. Qui l’incontro tra il nuovo e l’antico si può
sviluppare nelle più diverse direzioni, qui si può finalmente misurare la
capacità dei professionisti nostrani sia in quanto progettisti che commissari
giudicanti. Ovviamente le tecniche d’intervento dovranno tener conto del valore
storico-artistico di alcuni particolari manufatti per i quali non si potrà che
scegliere la via del restauro conservativo.
LA RICOSTRUZIONE DELL’EDILIZIA PRIVATA
Il problema non è di facile soluzione perché le tecniche
costruttive del passato sono inadeguate ad assumere un compito antisismico,
qualunque artificio di cerchiaggio o di rattoppo si proponga: la ricostruzione
passa necessariamente per un cambiamento tecnologico che poco si concilierebbe
comunque con “il ciottolo e la sabbia” o accoppiamenti simili che, per gli
insediamenti minori, hanno rappresentato le pratiche edilizie più diffuse nel
passato. Come già detto, inoltre, sarebbe opportuno che i vecchi edifici
residenziali venissero demoliti sino alle fondamenta perché è proprio da quelle
che parte la sicurezza.
Tornando poi alla
restituzione di quel carattere antico posseduto dagli insediamenti che
rappresenta una richiesta identitaria e una risorsa economica, il vero problema
non è tanto quello di evitare una eccessiva mimesi che costituirebbe comunque un
falso storico inaccettabile, ma quello di rendere compatibili con le strutture
intelaiate o elastiche che si dovranno adottare fronti perimetrali che
richiamino quella cifra del “com’era” che rappresenta l’attesa maggiore delle
popolazioni locali. Si tratta di un tema molto complesso sul quale bisognerà riflettere,
inventare, sperimentare.
P.S.
Il tema della ricostruzione richiede indubbiamente una riflessione
multidisciplinare che potrebbe essere degnamente posta alla base del congresso
dell’Inarch.
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