venerdì 18 novembre 2016

(perché dov’era com’era)

ALCUNE PREMESSE
A proposito di terremoti in Italia un aspetto risalta chiaramente:  l’amministrazione non ha (non può avere?) memoria di se: non esiste sisma le cui procedure d’intervento siano state riutilizzate, in tutto o in parte, negli eventi successivi. Il perché risiede nei principi di autonomia regionale e ancor più nello scontro per la titolarità dei finanziamenti. Dunque, sui criteri d’intervento neanche un solo principio guida si è consolidato: si oscilla tra il rifare tutto “com’era dov’era” ed il trasferimento totale degli abitati, sino alla follia delle new town.
Un censimento di qualche utilità delle aree a rischio è un’utopia per la rozzezza dei parametri sinora utilizzati e d’altra parte, come s’è visto anche in questo caso, il controllo delle opere di ricostruzione eseguite dopo un evento sismico viene sempre rinviato, sino al ripetersi dell’evento nell’area: non si hanno infatti notizie di vistose condanne per inadempienze o incompetenze passate.
Una difficoltà procedurale per la ricostruzione consiste nella frantumazione proprietaria che nei piccoli paesi turistici peggiora a causa delle tante seconde case. Inoltre, gli uffici tecnici comunali, quando esistono, non sono in grado di garantire che gli interventi sulle proprietà private tengano conto della resistenza delle strutture interessate agli eventuali adeguamenti (ha vinto lo slogan “padroni in casa propria”): di fatto non si esercita alcun controllo delle successive trasformazioni. Da qualche tempo si pensa di poter rimandare il controllo delle attività private al “Fascicolo del fabbricato”. Si tratta di un’esperienza tentata e fallita, non tanto per l’ostilità dei proprietari che lo considerano una ulteriore tassa sulla casa, quanto per il fatto che al momento di definire il quadro e firmare, nessun tipo di professionista si è dichiarato disposto ad assumersi la responsabilità del giudizio tecnico finale.
Anche nel caso delle ricostruzioni post sisma, è inutile lamentarsi della mancanza di una norma che regoli le competenze tecniche tra l’elevato numero di figure professionali implicate nell’edilizia: una legge come quella francese è stata proposta varie volte (si conoscono almeno 5 stesure) e non ha mai ricevuto la necessaria attenzione dei decisori politici.
Quando si parla di eventi sismici e della loro gestione bisogna conoscere le dinamiche "reali" che si innescano a valle dell’evento, bisogna averne vissuto qualcuno in prima persona; Quello che riescono a fare i cittadini e le amministrazioni in fatto di imbrogli amministrativi è assolutamente inenarrabile (vedi Irpinia). Quello che riescono a fare le strutture associative dei tecnici, degli amministratori condominiali, delle imprese, ecc. è inimmaginabile (vedi l'Aquila). Quello che si attiva nel mondo "politico" delle piccole realtà amministrative è del tutto imprevedibile (vedi Belice). Pochi sono gli eventi sismici italiani che possono essere ricordati per qualche sviluppo esemplare e sono tutti nell’Italia centro settentrionale.
Infine, per parlare di quanto ci riguarda più da vicino, dalle prime scosse di Amatrice si è sviluppato sulla stampa e sulla rete un interessante dibattito disciplinare sulle modalità della ricostruzione e delle tecnologie da adottare e, soprattutto, sul diritto dell’architettura di esprimersi con le forme del suo tempo: la posizione più intransigente è quella che rifiuta qualunque ricostruzione basata sul principio del “com’era dov’era”.
Tuttavia questa posizione perde consistenza se si esaminano alcuni aspetti di sistema, cioè riferiti al territorio da una parte e al “senso comune” delle popolazioni dall’altra.

LA FILOSOFIA DEL “DOV’ERA COM’ERA
Osservazione preliminare: l’espressione “dov’era com’era” sintetizza un indirizzo operativo che ha creato alcuni equivoci perché sembra riferito al solo patrimonio edificato dei territori terremotati: case, chiese, spazi e servizi pubblici; esso riguarderebbe esclusivamente le scelte tecnologiche e figurative da utilizzare nella riedificazione edilizia. Viceversa, (qui sta il centro del ragionamento che segue) questo indirizzo non può essere discusso se non considerando che esso sintetizza il pensiero di una collettività coesa che difende la sua identità come valore.

Se si esaminano i caratteri dei siti del cratere nel quale si collocano le diverse collettività interessate al sisma si può notare che ciascuna aveva con il suo sito un particolare rapporto complesso basato:
-          sull’organizzazione fisica dello spazio abitato, cioè  sull’insieme delle memorie materiali in termini di manufatti edilizi nonché di prodotti delle arti pittoriche, scultoree, artigianali;
-          sui rapporti di parentela e di vicinato, sul controllo sociale, sulle consuetudini cultuali, sugli assetti politici;
-          sulla gestione delle terre circostanti in termini di prodotti agricoli e di allevamento di specie animali destinate  alla produzione di materie prime da avviare all’industria di trasformazione locale;
-          su un’offerta turistica caratterizzata dalla fruizione di depositi storici e culturali, di eccellenze gastronomiche, di ricchezze ambientali e paesaggistiche, il tutto a costi contenuti per l’ospitalità e l’alimentazione.
In altre parole, il “com’era dov’era” riguarda l’intera vita delle popolazioni locali, sia in termini identitari che lavorativi che reddituali, dal momento che l’insieme degli aggregati costruiti (con le loro ricchezze storico-artistiche e cultuali), delle produzioni agroalimentari locali, dei paesaggi, rappresenta quell’offerta turistica dalla quale derivano per gran parte i redditi delle famiglie.
Insomma, il sistema dei piccoli “presepi” collinari/montani costituisce una ricchezza che facilmente una ricostruzione sbagliata per qualche aspetto potrebbe irrimediabilmente pregiudicare: una ricchezza fragile.
 Per esempio, se gli edificati perdessero quel carattere antico che rappresenta una qualità consolidata nell’immaginario collettivo (locale e internazionale) capace di attrarre turismo, è probabile che quest’ultimo sparirebbe: la ricostruzione avrebbe prodotto un danno irreparabile anziché un beneficio.
Il proposito sottinteso a questo scritto è comunque quello di limitare il ragionamento ad un solo problema: quale può essere una via ragionevole per la ricostruzione degli insediamenti urbani?

SULLA RICOSTRUZIONE DEGLI INSEDIAMENTI
Dunque la formula del “dov’era com’era” per la ricostruzione dei tessuti storici dei nostri “presepi” va esaminata sulla base di molteplici fattori.
1 – c’è un “senso comune” molto forte delle popolazioni colpite che le spinge a voler ricostruite non solo le loro abitazioni, ma anche gli ambienti circostanti, di vicinato, nei quali esse sorgevano. E’ l’interpretazione inconsapevole e popolare di quella regola che Lavedan ha sintetizzato nella formula della “permanenza del piano”: ancor oggi essa rappresenta l’elemento formale più caratterizzante dei piccoli insediamenti, come è stato per L’Aquila;
2 – le piccole città, i paesi, i borghi, le frazioni, ecc. nelle zone di più antico insediamento hanno raramente edifici d’abitazione plurifamiliari e quando accade ciò è il prodotto di annessioni, sopraelevazioni e superfetazioni che rendono le proprietà inestricabili, fonti di contenziosi insanabili;
3 – la gran parte del costruito terremotato riguarda case di abitazione private e l’esperienza dei terremoti precedenti dimostra che ciascun proprietario intende occuparsi in prima persona della ricostruzione che lo interessa. Ciò significa che le configurazioni architettoniche dipenderanno per gran parte dalle scelte del proprietario e del progettista e, per quanto ci interessa, dalla qualità professionale e culturale di quest’ultimo. (Nell’insieme delle molteplici esperienze di ricostruzione fa eccezione a quanto appena detto quella del Belice dove le abitazioni furono ricostruite per massima parte su progetto e  iniziativa dell’ente pubblico; ma chiunque abbia visitato Gibellina, ad esempio, sa quale è il livello di gradimento delle popolazioni e quanta la loro frustrazione);
4 – ripristinare l’abitabilità con garanzie di sicurezza è poco fattibile con azioni di rinforzo, cerchiaggio, inchiavardatura, ricucitura, ecc. dal momento che la parte più cospicua dei problemi risiede nella qualità dei terreni e nei sistemi fondali. La totale demolizione di quanto resta darebbe le necessarie garanzie;
5 – chi gestirà (comune, commissario, struttura di missione, protezione civile?) la ricostruzione della quota privata dovrà tener conto di questo intreccio di problemi e, soprattutto, dettare norme (poche, possibilmente) d’indirizzo per proprietari e progettisti. Si sa bene che il compito non è facile per la grande quantità di interessi e soggetti in gioco, ma la riuscita e la velocità dell’opera di ricostruzione dipende almeno all’80% da questi fattori;
6 – alcune “buone pratiche” progettuali che accontentino le aspettative dei cittadini senza deprimere la qualità estetica e la memoria storica dei luoghi possono essere proposte se i responsabili della ricostruzione (tecnici e amministrativi) sono all’altezza del compito;
7 – del tutto diverso deve essere il ragionamento per quanto riguarda tutti gli edifici e gli spazi pubblici. In questo caso le gare di progettazione e costruzione sono il tramite per conferire qualità architettonica alle ricostruzioni e fondamentale saranno la fattura dei bandi e la scelta delle giurie. Qui l’incontro tra il nuovo e l’antico si può sviluppare nelle più diverse direzioni, qui si può finalmente misurare la capacità dei professionisti nostrani sia in quanto progettisti che commissari giudicanti. Ovviamente le tecniche d’intervento dovranno tener conto del valore storico-artistico di alcuni particolari manufatti per i quali non si potrà che scegliere la via del restauro conservativo.

LA RICOSTRUZIONE DELL’EDILIZIA PRIVATA
Il problema non è di facile soluzione perché le tecniche costruttive del passato sono inadeguate ad assumere un compito antisismico, qualunque artificio di cerchiaggio o di rattoppo si proponga: la ricostruzione passa necessariamente per un cambiamento tecnologico che poco si concilierebbe comunque con “il ciottolo e la sabbia” o accoppiamenti simili che, per gli insediamenti minori, hanno rappresentato le pratiche edilizie più diffuse nel passato. Come già detto, inoltre, sarebbe opportuno che i vecchi edifici residenziali venissero demoliti sino alle fondamenta perché è proprio da quelle che parte la sicurezza.
 Tornando poi alla restituzione di quel carattere antico posseduto dagli insediamenti che rappresenta una richiesta identitaria e una risorsa economica, il vero problema non è tanto quello di evitare una eccessiva mimesi che costituirebbe comunque un falso storico inaccettabile, ma quello di rendere compatibili con le strutture intelaiate o elastiche che si dovranno adottare fronti perimetrali che richiamino quella cifra del “com’era” che rappresenta l’attesa maggiore delle popolazioni locali. Si tratta di un tema molto complesso sul quale bisognerà riflettere, inventare, sperimentare.

P.S.  Il tema della ricostruzione richiede indubbiamente una riflessione multidisciplinare che potrebbe essere degnamente posta alla base del congresso dell’Inarch.


 Roma 10.11.16

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